neurobrain

La Plasticità Neurale

Fino agli ultimi decenni del 20° secolo i cultori delle neuroscienze ritenevano che il cervello sviluppava le sue principali funzioni nella prima infanzia. Il Cervello maturo era considerato non modificabile, come un computer con tutte le sue connessioni permanentemente saldate insieme. Oggi sappiamo che il cervello modifica costantemente se stesso. Ogni volta che apprendiamo qualcosa di nuovo, il cervello modifica la propria struttura sul piano fisico, chimico e funzionale. Dalla consapevolezza che il cervello dell’adulto è malleabile scaturiscono implicazioni di formidabile importanza per il miglioramento delle funzioni cerebrali umane, sia in condizioni fisiologiche (dall’età evolutiva alla senescenza), sia in condizioni patologiche. Tale capacità è definita plasticità neurale o neuroplasticità. Il concetto di plasticità, apparentemente semplice, è invece straordinariamente complesso, e si presta a livelli di analisi multipli, da quello genetico a quello comportamentale. Il primo studio teoretico su tale argomento è quello di  Jacques Paillard[i](tradotto in inglese da Will nel 2008[ii]), nel quale l’Autore sostiene che il termine plasticità si riferisce alla capacità di un sistema di acquisire nuove funzioni, modificando la sua connettività interna, o cambiando gli elementi dai quali è costituito. In questo senso non si può parlare di plasticità, se non quando si assiste all’acquisizione di nuove funzioni, ed in assenza di cambiamenti strutturali del sistema. Jerzy Konorski (1903-1973) fu il primo ad usare il termine “plasticità” nel 1948, avanzando l’ipotesi che tale prerogativa del Sistema Nervoso fosse da ricercare nella costante riorganizzazione delle connessioni sinaptiche,[iii]e che essa fosse alla base dei processi di apprendimento, memoria e recupero funzionale dopo una lesione (Butchel, 1978).[iv]Il principio della plasticità cerebrale è ora ben riconosciuto dalle neuroscienze attuali, ma la sua accettazione relativamente recente emerge con gli studi di Rosenzweig e Bennett (1996)[v]sugli ambienti arricchiti, e di Hubel e Wiesel sulla deprivazione visiva.[vi]

[i]   Paillard J. Reflexions sur l’usage du concept de plasticit´e en neurobiologie. J Psychol 1976;1:33–47.

[ii]  Will B, et al., The concept of brain plasticity—Paillard’s systemic analysis and emphasis on structure and function (followed by the translation of a seminal paper by Paillard on plasticity), Behav Brain Res (2008), doi:10.1016/j.bbr.2007.11.008

[iii]  Konorski J. Conditioned reflexes and neuron organization. Cambridge University Press, 1948.

[iv]  Butchel HA. On defining neural plasticity. Arch Ital Biol, 1978: 116(3-4):241-7

[v]  Rosenzweig MR, Bennett EL. Psychobiology of plasticity: effects of training and experience on brain and behavior. Behav Brain Res 1996;78:57–65.

[vi]  Hubel DH,Wiesel TN, LeVay S. Plasticity of ocular dominance in monkey striate cortex. Philos Trans R Soc Lond Ser B: Biol Sci 1977;278:377–409.

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[i]   Mark R. Rosenzweig, Edward L. Bennett. Psychobiology of plasticity: effects of training and experience on brain and behavior Behavioural Brain Research 78 (1996) 57 65.

[ii]  Hebb, D.O., The Organization of Behavior: A Neuropsychological Theory. Wiley, New York, 1949.

[iii]  Krech, D., Rosenzweig, M.R. and Bennett, E.L., Dimensions of discrimination and level of cholinesterase activity in the cerebral cortex of the rat. J. Comp. Physiol. Psychol., 82 (1956) 261-268.

[iv]  Rosenzweig, M.R., Krech, D., Bennett, E.L. and Diamond, M.C., Effects of environmental complexity and training on brain chemistry and anatomy: A replication and extension. J. Comp. Physiol. Psychol., 55 (1962) 429-437.

[v]  Bennett, E.L., Diamond, M.C., Krech, D. and Rosenzweig, M.R., Chemical and anatomical plasticity of brain. Science, 164 (1964) 610-619.

[vi]  Geller, E., Yuwiler, A. and Zolman, J.F., Effects of environmental complexity on constituents of brain and liver. J. Neurochem., 12 (1965) 949-955.

[vii]Greenough, W.T. and Volkmar, F.R., Pattern of dendritic branching in occipital cortex of rats reared in complex environments. Exp. Neurol., 40 (1973) 136 143.

[viii]       Altman, J. and Das, G.D., Autoradiographic examination of the effects of enriched environment on the rate of glial multiplication in the adult rat brain. Nature, 204 (1964) 1161-1163.

[ix]  Mark R. Rosenzweig and Edward L. Bennett. Psychobiology of plasticity: effects of training and experience on brain and behavior. Behavioural Brain Research 78 (1996) 57 65

I primi studi sperimentali

Nel 1996 Mark Rosenzweig ed Edward Bennett pubblicavano[i]il resoconto delle proprie trentennali ricerche, ispirate dal postulato di D. Hebb sulla neuroplasticità[ii]dipendente dall’attività. Nei primi anni 60 essi avevano dimostrato che, sia un training formale, sia esperienze informali determinavano cambiamenti misurabili della chimica e dell’anatomia cerebrale in roditori, partendo dalla rilevazione precedente che correlava i livelli di acetilcolinesterasi della corteccia cerebrale con la capacità di risolvere problemi spaziali negli stessi animali da esperimento.[iii]In uno studio sperimentale[iv]essi avevano posto dei ratti dello stesso sesso in ambienti diversi: un ambiente arricchito, perché forniva maggiori opportunità di apprendimento, e costituito da una grande gabbia contenente un gruppo di 10-12 animali con vari oggetti-stimolo, che venivamo cambiati giornalmente; un ambiente dove tre animali erano posti in una gabbia standard con cibo e acqua; un ambiente impoverito dove veniva posto in singolo animale. Gli animali posti nell’ambiente arricchito mostravano un maggior peso della corteccia cerebrale ed una maggiore attività cerebrale di acetilcolinesterasi. Tali risultati, accolti con scetticismo, furono replicati negli anni seguenti dagli stessi autori,[v]e da altri ricercatori[vi],[vii],[viii], così l’idea che un training o una esperienza differenziata potesse determinare cambiamenti misurabili nel cervello, cominciò ad essere presa in considerazione dalla comunità scientifica internazionale.[ix]


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Nei  mammiferi con visione binoculare la porzione nasale di una retina riceve inputs dello stesso emicampo visivo della porzione temporale della retina controlaterale. Gli assoni delle cellule gangliari provenienti dalla porzione nasale di entrambe le retine attraversano il chiasma ottico e tramite in tratto ottico controlaterale raggiungono il corpo genicolato laterale, insieme agli assoni provenienti dalla metà temporale della retina controlaterale. Tali proiezioni formano strati discreti occhio specifici nel nucleo genicolato laterale. Le proiezioni dal tale nucleo alla corteccia visiva primaria mantengono tale segregazione occhio–specifica e raggiungono aree occhio-specifiche, che sono le basi anatomiche delle colonne di dominanza oculare.

In seguito Hubel e Wiesel, premi Nobel per la Fisiologia e Medicina nel 1981 per le loro scoperte sulla fisiologia dei processi visivi,[i]dimostrarono che in gatti neonati la deprivazione della luce in un occhio riduceva il numero di neuroni capaci di rispondere alla luce nella corteccia occipitale.[ii],[iii] Essi eseguirono uno studio sperimentale sulla deprivazione sensoriale visiva su sette gatti neonati, attraverso la sutura palpebrale dell’occhio destro.[iv]Quattro di essi furono deprivati a partire dalla fase in cui si verifica la normale apertura degli occhi. Per gli altri tre animali fu permessa una iniziale esperienza visiva. La deprivazione visiva fu mantenuta per periodi di 1-4 mesi, dopo i quali, rimossa la sutura dell’occhio deprivato, ed occluso con una lente opaca l’occhio sano, vennero eseguite delle rilevazioni sperimentali sul comportamento dell’animale, sul funzionamento della retina attraverso l’elettroretinogramma, e sulla risposta dei neuroni del 4° strato della corteccia visiva primaria (V1) attraverso registrazioni con microelettrodi. Gli animali deprivati dalla nascita non mostravano reazioni di piazzamento visivo (visual placing reactions) ed alcuna capacità di percezione visiva delle forme. Il riflesso pupillare alla luce e l’elettroretinogramma erano normali, mentre nel 4° strato della corteccia visiva primaria la maggior parte dei neuroni rispondeva solo all’occhio sano, Negli animali deprivati dopo 1-2 mesi di normale esperienza visiva tali deficit erano meno evidenti, anche se l’abilità dell’occhio deprivato nell’influenzare i neuroni corticali visivi era al di sotto della norma.

[i]   "The Nobel Prize in Physiology or Medicine 1981". Nobelprize.org. 26 May 2013 http://www.nobelprize.org/nobel_prizes/medicine/laureates/1981/

[ii]  Hubel, D.H. and Wiesel, T.N., Binocular interaction in striate cortex of kittens reared with artificial squint. J. Neurophysiol., 28 (1965) 1041-1059.

[iii]  Wiesel, T.N. and Hubel, D.H., Comparison of the effects of unilateral and bilateral eye closure on cortical unit responses in kittens. J. Neurophysiol., 28 (1965) 1029-1040.

[iv]  Wiesel, T.N. and Hubel, D.H., Single-cell responses in striate cortex of kittens deprived of vision in one eye. J. Neurophysiol., 26 (1963) 1003-1017.

Tale studio ha dimostrato che, la deprivazione di esperienza visiva determina la mancata strutturazione delle cosiddette colonne di dominanza oculare. Nei carnivori e nei primati (uomo incluso), ma non nei roditori, gruppi di cellule dello strato IV della corteccia visiva primaria (area 17 di Broadman), che ricevono input dall’occhio controlaterale si alternano con gruppi di cellule che ricevono input dall'occhio ipsilaterale, formando le cosiddette colonne di dominanza oculare. Esse sono visibili anatomicamente con una colorazione che marca in nero i terminali che provengono dal corpo genicolato laterale e che sono guidati da un occhio, creando una specie di pelle di zebra sulla superficie dello strato 4 della corteccia visiva primaria 

Gli effetti della deprivazione visiva di un occhio

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Le colonne di dominanza oculare corrispondenti all’occhio deprivato (in basso) si restringono a favore di quelle dell’occhio non deprivato.